Si è spento ieri sera, a Roma, all’età di 81 anni, Walter Bonatti, lo scalatore, l’uomo di avventura, il reporter dai luoghi selvaggi del pianeta che ha fatto sognare l’Italia del miracolo economico. Bonatti, nato a Bergamo nel 1930, è stato il più forte alpinista del Dopoguerra, diventando esempio di determinazione e capacità innovativa per generazioni future di scalatori. Si formò come molti lombardi sulle rocce calcaree delle Grigne e divenne guida alpina. Quando nel 1951 concluse la salita sull’aggettante parete est del Grand Capucin nel Gruppo del Bianco, fu il primo a importare sulle Alpi Occidentali le tecniche di scalata estrema sviluppate in Dolomiti nell’ambito della scuola degli orientalisti.

La sua carriera fu un susseguirsi di scalate sensazionali, alcune delle quali hanno inaugurato nuove fasi nella storia dell’esplorazione verticale delle Alpi. Tra i suoi successi più importanti vanno ricordati la solitaria lungo una via nuova sul pilastro sudovest del Petit Dru, ormai crollato dopo le frane del 2005 e i cedimenti di domenica scorsa, sul quale rimase impegnato per sei giorni. Compì la prima invernale alla parete nord della Cima Grande di Lavaredo e della Cima Ovest, l’invernale alla Nord delle Grandes Jorasses e tante altre imprese, sulle Ande, in Karakorum. Concluse la sua vicenda alpinistica nel 1965, centenario della conquista del Cervino, salendo la Nord della montagna da solo, in inverno, lungo un nuovo itinerario. È stato il primo vero divulgatore di alpinismo, aprendo la strada ai futuri Messner, sia attraverso le sue immagini pubblicate su settimanali di grande tiratura e volumi strenna, sia grazie a fortunatissimi libri, come Le mie montagne, I giorni grandi, Montagne di una vita.

La sua vita è stata anche segnata da lunghe polemiche, incomprensioni, scontri giudiziari, come quelli avvenuti in seguito alla conquista italiana del K2 nel 1954, quando si trovò in conflitto con Lacedelli e Compagnoni, da lui accusati di averlo lasciato senza tenda a quota ottomila. Bonatti è stato il simbolo di un Italia felice, carica di futuro, che vedeva nell’alpinismo la metafora della crescita, della conquista di nuovi orizzonti per sognare.