in questa pagina puoi visualizzare alcuni articoli tratti dall’archivio storico del Gruppo grotte G. Trevisiol:

Relazione delle prime esplorazioni della Voragine Giacominerloch. autore: Luigi Marzot -2 ottobre 1932-

La gita sociale al Bus Della Rana con il Cai di Vicenza

RELAZIONE DELLE PRIME ESPLORAZIONI DELLA VORAGINE GIACOMINERLOCH

Durante il riordino del vecchio archivio e della biblioteca del Gruppo Grotte del CAI- Vicenza, abbiamo ritrovato un documento di grande interesse riguardante la primissima esplorazione dell’abisso “Giacominerloch”. La relazione, scritta dal geometra Luigi Marzot, viene pubblicata come una delle prime testimonianze dell’attività del gruppo speleologico, confluito poi nel CAI nel 1935. Le primitive tecniche di esplorazione adottate risultano ben diverse da quelle adottate solo pochi anni dopo nell’esplorazione Trevisiol. Da allora numerose sono state le esplorazioni che si sono succedute nella ricerca di possibili prosecuzioni; ma è solo nel 1989 che, grazie alle scoperte del gruppo CAI di Malo, si è potuto scendere nelle viscere più profonde dell’Altopiano dei Sette Comuni.

Claudio Barbato

Romano Trevisiol

– LA PRIMA ESPLORAZIONE: 2 OTTOBRE 1932 –

Incassata tra le pittoresche ondulazioni dell’Altipiano dei Sette Comuni, ricche di storia e di varie e strane leggende, si trova, Fra Cesuna e Canove e precisamente a NW della strada tra Cesuna ed il ponte degli Inglesi sul Ghelpack, un’ampia conca a forma di imbuto, terminante in una grotta della larghezza di tre metri. Dal Belvedere, luogo più vicino all’imboccatura e accessibile con una certa facilità si può osservare la forma dell’apertura e da questa dedurne l’origine della voragine, causata di certo dallo spostamento dei piani di una fessura normale agli strati terrestri. Queste pareti sono lontane tra loro poco più di due metri la quale va aumentando all’interno fino a formare degli ampi cavernoni.

Questo luogo attrae parecchi gitanti incuriositi anche dalle strane leggende che tuttora si raccontano dai vicini paesani sia sull’origine che sui strani usi della misteriosa voragine. Sull’origine di questa e quindi anche sul suo nome i vecchi di quei luoghi raccontano che una volta in quel luogo si trovava un verdeggiante prato; un giorno, durante la festa del dio Giacomino, una divinità di quei tempi, un pastore faceva pascolare le pecore su questo prato, anzichè osservare la festa e i riti religiosi cosi il dio Giacomino per punizione fece crollare il terreno che travolse pastore e pecore. Questa la leggendaria origine della voragine nonché il suo nome di Giacominorloch, cioè grotta del Giacomino (loch = buco, caverna in cimbro). Fu in seguito a tale leggenda che in osservanza al castigo del dio Giacomino all’ateo pastore, il popolo si servì di questa voragine quale luogo per gettarvi dentro tutti gli atei che morivano. Nella biblioteca universitaria di Padova si trova un volume che comprende una raccolta di fiabe cimbre del vecchio Jeckel, ritengo opportuno riportare per intero la fedele traduzione dal cimbro della presente che riguarda appunto tale grotta; “Una volta quassù al buco di Semblen (Giacominorloch) tre o quattro pastorelle si sono là fermate colle pecore intorno a questo buco affinché le loro bestie pascolassero l’erba. E poi queste ragazze si pensano tutte assieme: – che facciamo adesso per vedere quanto è fondo questo buco? E allora quelle ragazze avevano seco loro una corda per una e la più attempata ha pensato di legare le corde tutte assieme. Legano un sasso in fondo alla corda ed anche tre medagliette raffiguranti la Madonna e Sant’ Antonio e queste medagliette erano state benedette.

Appena le hanno gettate giù è venuto un grosso cane nero con occhi grandi e una lunga lingua. Quel cane parla loro e dice: cosa comandate voi qui? e le ragazze sono fuggite via piangendo tutte assieme. Poco lontano un pastore che le ha sentite piangere ha chiesto loro cosa hanno visto e le ragazze raccontatogli il fatto dicono anche di non aver più visto niente. Allora il pastorello si precipita sino alla voragine e vede il grosso cane scomparire in una lingua di fuoco. Il giorno dopo si sono uniti colà cinque giovani garzoni per togliersi da questo sospetto. Si sono seduti in una cesta in due e gli altri tre gli hanno lasciati giù colla corda. E quando questi due sono stati giù in fondo hanno gridato presto tirate su e quando sono arrivati in cima dagli altri erano mezzi morti di paura e mai più quei giovani sono scesi nei buchi. Quando hanno confessato al prete quello che hanno visto non li ha voluti assolvere”.

La Voragine del Giacominerloch oltre ad avere una certa attrattiva per l’originalità e per la sua parte leggendaria è fra le più notevoli fenditure che possono permettere una esplorazione del sotto suolo dell’altipiano. Sottosuolo poco noto e che data la sua natura prettamente permeabile, può offrire interessanti studi sul percorso delle acque piovane che si infiltrano nel terreno. Interesse aumentato dal fatto che le principali valli (Val d’Assa, Ghelpack, Val Frenzella sebbene abbiano un grande bacino imbrifero sono scarsissime d’acqua che esce dalla magnifica grotta di Oliero e dalle sorgenti sotto Cogollo del Cengio. Considerando poi che il solo getto d’acqua di Oliero esporta circa una decina di metri cubi di calcari all’anno si può dedurre quali ampi cavernoni si siano formati col passare del tempo, non da dire di compromettere la sicurezza dei paesi soprastanti pur valutando di compiere un maggiore studio del sottosuolo. Essendo sinora ignorati i particolari della struttura della voragine si può giustamente ritenere che nessuno vi sia penetrato a visitarla totalmente. Parecchi gettarono dei sassi dall’imboccatura ma l’orecchio non arriva a percepire il percorso tanta è la strada che questo deve percorrere. Tutto questo ignoto mi fece sorgere la volontà di esplorarla in totale e ne studio da tempo il modo più; opportuno per una buona riuscita. Il quattordici agosto col rag. Albino Frigo e coadiuvato dal dott. Giovanni Frigo organizzai una prima e infruttuosa esplorazione per lo scarso materiale disponibile quindi rinviai la esplorazione. Provvisto di ben duecento metri di corde dall’UVE e due dalle sezioni del CAI di Vicenza le quali sezioni ringrazio per il loro gentile concorso. Dopo aver curato i particolari della spedizione coadiuvato dai volonterosi Uveini: Wladimiro Malfatti, Pietro Rizzi e dallo studente Rodolfo Sandon raccogliamo il materiale e predisponiamo soluzioni o rimedi ai sinistri che dovessimo incontrare decidiamo di compiere il due ottobre la esplorazione.

Avvertito il dott. Giovanni Frigo di Canove delle nostre intenzioni e dell’ora massima del nostro ritorno dopo la quale avrebbero dovuto provvedere ad eventuali soccorsi. Predisponiamo ogni cosa alla imboccatura della grotta ci copriamo il vestiario con una tuta. Oltre ai duecento metri di corda portiamo con noi in una tasca del petto un generatore di carburo con un tubo flessibile che manda al riflettore fissato sul cappello, tale sistema permette di avere libere le mani e di dirigere il fascio luminoso parallelo alla visuale, due torce a vento, fra fanali elettrici tascabili, acqua e carburo di riserva per oltre venti ore di luce, un fanale di riserva, di una settantina di ore di luce, dei viveri di riserva, una scatola di medicazione, un fischietto per segnali morse, la bussola, due piccozze, alcune frecce per segnalare dell’uscita, la macchina fotografica, una buona scorta di magnesio metallico anziché in polvere per non provocare alla accensione franamenti o altri sinistri poco gradevoli. Dopo aver fissato una delle tre corde a due abeti più vicini al primo pozzo abbiamo iniziato la discesa.

Una buona cinquantina di metri di pareti lisce e verticali. Il primo tratto con uno scindibile strapiombo con qualche lieve appiglio reso sdrucciolevole dalla grande umidità che copre ogni cosa e anche la corda in breve tempo si coprì di quel terriccio viscido che rende alquanto faticoso la discesa con le mani. Giunti al primo piano, superata quindi la prima difficoltà, troviamo ad est una piccola nicchia e nascosto tra il terriccio si lascia intravedere alcune parti di un letto e altre masserizie, coperte, lenzuola, un catino e vari oggetti che si venne poi a sapere appartenuti a una donna morta anni addietro di malattia contagiosa e gettatavi colà da alcuni abitanti di Cesuna. Lasciato quel posto salimmo l’altro versante il quale discende con forte pendenza per una ventina di metri, lungo uno stretto ed alto corridoio che mette al secondo salto di quattordici metri tutto in strapiombo essendo il gradino formato molto sporgente. La discesa non è del tutto facile dato anche il meno assicurante allungamento della corda per propria elasticità avendo questa raggiunto notevole lunghezza. Discesi dal secondo salto troviamo del sorprendente, dallo stretto corridoio si apre dinanzi a noi un ampio salone di una trentina di metri di larghezza per un’ ottantina di lunghezza; il primo tratto, formato dal rotolare dei sassi, si discende a forte pendenza (45°). In questo tratto troviamo del materiale bellico, due ruote di cannone e accanto un proiettile austriaco inesploso, a sud ci attrae un certo odorino che ci rivela le ossa di un bue e la parte di una coscia in evidente stato di putrefazione. Vicino in mesta compagnia uno scheletro ben ripulito di un maiale riconoscibile dal suo cranio con una fila di denti bianchi dai quali estraggo un canino a memoria del defunto. Continuando le nostre osservazioni troviamo diverse bombe a mano e da fucile, una base di cemento del baracchino militare che si trovava durante la guerra poco sopra la voragine ed altri tristi ricordi di guerra, ossa frammischiate a panno macerato, giberne, cartucce e terriccio e sassi che copre in mal modo ogni cosa. Il mio pensiero corre a quei soldati precipitati quaggiù privi di una croce e di una meritevole sepoltura.

Proseguiamo per un passaggio di tre metri di diametro, dopo una discesa fra grossi massi caduti dalla volta franata arriviamo all’inizio di un laghetto il quale a prima vista ci sembra pieno d’acqua, assicurati dell’assenza di questa, con uno scivolone lungo la roccia liscia e bagnata saltiamo sul fondo di terriccio melmoso; qui la grotta si limita ad un ampio corridoio che forma un doppio angolo, dopo del quale si arriva alla sua fine. Una bella sorgente d’acqua scaturisce dall’alto e discende lungo la roccia verticale per poi scomparire nel terreno sabbioso. Ci rincresce non poter vedere coi nostri mezzi d’illuminazione l’incontro delle due pareti lisce che formano la volta che sarà ad ottanta e più metri d’altezza. Anche questo è un punto magnifico della grotta, faccio alcune osservazioni sul paesaggio delle acque e sulle stratificazioni della roccia, raccolgo alcuni pezzetti di roccia di natura diversa dal soprasuolo, faccio una foto al magnesio, rizziamo una pila di sassi a ricordo del nostro arrivo al punto estremo della grotta e quindi procediamo nel ritorno. Risaliamo il secondo salto, quattordici metri a sole braccia resa più difficile dalla corda bagnata. Tentiamo una foto dove si doveva vedere i riflessi della luce esterna, effetto che doveva riuscire alquanto interessante, ma male riuscì data la troppa distanza dalle pareti del magnesio. Giunti sotto il pozzo ci cingemmo a risalirlo uno alla volta arrampicandoci alla fedele corda trattenuta all’esterno anche dal buon Corradino di Canove ed alcuni ragazzi. Dopo aver fatto risalire tutto il materiale ad uno ad uno ritorniamo alla luce fra il mondo abitato, e quella luce del sole ci appare più splendente di prima e che maggiormente ci fa apprezzare la sua esistenza. In questo verdeggiante aperto vedo i miei collaboratori che mi avevano preceduto nella ascesa, sebbene insudiciati, già intenti a divorare quanto di viveri contenevano i sacchi da montagna. Non mi resta che dar mano ai viveri di riserva che avevo portati con me a visitare anch’essi la grotta.

Una trentina di persone ci circondano di domande d’ogni genere sull’interno della grotta alle quali rispondiamo avvolgendo le corde e raccogliendo il nostro materiale il quale merita una foto assieme ad uno studio delle stratificazioni del sottosuolo e del percorso delle acque sotterranee, studio da ultimare dopo la esplorazione della grotta di Conco del buso della Spaluga, Del Buco della Neve, del Buson e di altre nel versante Est. Esplorazioni che cercherò di poter fare quanto prima per rendere interessante questo mio modesto contributo allo studio del sottosuolo dell’ Altipiano dei Sette Comuni.

Luigi Marzot

LA GITA SOCIALE AL “BUSO DELLA RANA”

con il CAI di Vicenza

Il 16 ottobre 1938 il gruppo speleologico ha effettuato un felice esperimento di escursione collettiva al “Buso della Rana” che ha permesso ad una numerosa comitiva di addentrarsi nelle profondità di un mondo sotterraneo, tanto interessante quanto poco conosciuto. Questa grotta che si snoda per circa 4 chilometri di gallerie nelle viscere del monte Faedo, presso Priabona in Comune di Monte di Malo, è certamente una delle più importanti non solo del Vicentino, ma altresì d’Italia, sia per la sua lunghezza, sia per le sue bellezze ed è certamente destinata a diventare una cospicua fonte di studi per la varietà dei fenomeni in essa racchiusi.

Il Buso della Rana, è costituito da un fiume sotterraneo che si snoda erodendo continuamente le rocce calcareo-marmose del sito sino a creare gallerie e corridoi intersecati da grandi cameroni e da lavine. Sul tutto, l’acqua corre e sgocciola da secoli formando concrezioni bellissime dalle forme più svariate che la fantasia più sbagliata non riuscirebbe a concepire. Il solo ingresso conosciuto della grotta è situato ove sfocia il fiume sotterraneo che quale immenso atrio, ha accolto gli sguardi stupiti degli escursionisti i quali, hanno iniziato il loro cammino verso l’interno saltando di sasso in sasso nei più svariati e strani sbibigliamenti da fatica. Gli amici del Gruppo grotte sono evidentemente i meglio equipaggiati ma essi hanno cortesemente provveduto anche per gli altri, specialmente per quanto riguarda la illuminazione. Dopo alcuni corridoi, la comitiva raggiunge il sifone, ora comodamente accessibile mercè alcuni lavori di scavo recentemente effettuati dagli speleologhi vicentini. Il passaggio viene eseguito strisciando su una sassaia che porta in una grandiosa sala, nel cui centro troneggia una colossale colonna stalattitica. Quasi alla base di essa ha inizio il Lago di Caronte, lungo una ventina di metri e molto profondo, che viene superato con una comoda imbarcazione di lamiera zincata.  L’opposta riva è in breve raggiunta. Quivi un corridoio molto alto conduce i gitanti alla Sala del Trivio ove la grotta aprendosi in caverna, si divide in tre rami.

Il ramo di sinistra finisce quasi subito in un grande ammasso d’argilla; quello di destra, a detta degli amici grottaioli, ha notevole sviluppo. La comitiva deve continuare così per la galleria centrale che sembra il prolungamento del corridoio precedente. Il fondo è completamente invaso dall’acqua, ma un provvidenziale ponticello, fa superare facilmente l’ostacolo, mentre il vento, ingolfandosi nei punti più stretti sì fa sempre più forte.

Questa passerella è purtroppo l’ultima delle opere predisposte dal Gruppo grotte, l’andare avanti richiederà ora qualche sacrificio. Infatti, il fondo, divenuto sabbioso, fa ristagnare l’acqua ovunque; molti cominciano a cambiarsi le scarpe, altri accettano filosoficamente il fresco pediluvio. Fra corridoi e sifoni si arriva al Laghetto della Cascata. Questo, è un grande cavernone, mezzo invaso dall’acqua, che sembra non abbia alcuna uscita; soltanto verso l’alto, vi è una apertura dalla quale cade spruzzando una cascatella. Ci si sta domandando, un po’ perplessi, se bisogna salire fino lassù, quando appaiono gli organizzatori affacendati attorno a due scale che cercano di unire insieme. Nessun dubbio; essi stanno preparando una magnifica doccia per tutti i partecipanti che, ormai rassegnati, guardano i preparativi e gli spruzzi, che cadono abbondantemente da tutte le parti. La scala viene appoggiata, bisogna salire. Sopra, c’è il Corridoio delle Marmitte; è una delle gallerie più strane della grotta ed è da questo punto che sembra abbia inizio il vero dislivello. Il corridoio tortuoso si eleva a grandi ripiani, ognuno dei quali forma una cascata. È senza dubbio molto singolare; l’acqua cadendo rende i ripiani concavi in modo tale, da dare l’idea di tante marmitte in gradinata. Spesso in alcune di esse, l’acqua gira su se stessa trasportando sassi il cui moto rende l’escavazione sempre più profonda e li fa diventare simili a palle di biliardo. Qui gli spruzzi e gli sgocciolamenti cadono da tutte le parti ed e qui che si incontrano le prime meraviglie. Le stalattiti e le stalagmiti agglomerandosi in complessi stupendi, creano paesaggi fantastici variamente istoriati dall’erosione delle acque. Le rocce, franate o cedute, sembrano ricoperte da mantelli pietrificati, il cui aspetto irreale provoca l’ammirazione degli speleologi. Ognuno cerca di esprimere le proprie impressioni ma non ci riesce; perchè impossibile è racchiudere in poche, aride frasi tante bellezze di cui la natura sembra essere stata in quel luogo così prodiga.

È così che la mentalità dei gitanti cambia, e si trasforma sempre più; ormai essi non sono più tali, essi sono preoccupati soltanto dal desiderio di andare avanti e di vedere uscire dall’ombra, sempre nuovi spettacoli. Non ci si fa più caso se le mani e le gambe si spelano e sono continuamente immerse nell’acqua. Il continuo sforzo fisico ha reso le membra così calde che i piedi hanno acquistato nel posarsi una maggiore sensibilità; diguazzano allegramente senza più sentire il freddo. Gli occhi ormai abituati, vedono più facilmente il guizzo delle lampade gli appigli migliori. Di tutte le incredibili bellezze che si incontrano, una delle più interessanti è la così detta Sala della Vigna, così chiamata, perchè le incrostazioni del soffitto delle pareti assomigliano stranamente a dei grappoli d’uva. Qui stalattiti e stalagmiti ce ne sono dappertutto.

È in questi passaggi che gli elmetti di cui siamo provvisti si rivelano veramente provvidenziali per proteggere le nostre teste dalle punte minacciose pendenti da ogni parte. A poco a poco il corridoio va sempre più restringendosi; i cunicoli e le strettoie si fanno sempre più numerosi. Si procede a stento tutti in fila: bisogna abbassarsi sempre più, finchè il cunicolo è poco più largo della circonferenza del corpo. Bisogna andare avanti tenacemente a forza di gomiti e di ginocchia, strisciando come serpenti. Mentre si sta cercando un mezzo per procedere più celermente, il gruppo di punta supera le ultime strettoie e sbocca fuori del cunicolo. Viene osservato giustamente, che a giudicare dalla sonorità delle voci gioiose, la escavazione raggiunta deve essere assai vasta, e difatti, la grandezza della cavità supera tutte le aspettative. Questa grotta che è chiamata l’Androne terminale ha la forma di una immensa cupola gotica la cui volta si perde nell’oscurit&agrave.

La parte di sinistra è tutta ricoperta di concrezioni strane simili a piccoli funghi bianchi. Sulla parete di destra altre concrezioni hanno l’aspetto di piccoli grappoli d’uva. Lungo la parete di fondo alcuni rigagnoli d’acqua hanno costruito una specie di manto pietrificato. Ivi sulla bruna roccia si taglia la targa posta da coloro che per primi sono arrivati fin là. Si legge tacitamente alla luce delle lampade “Gruppo speleologico del C.A.I. di Arzignano Anno VI”. Sotto di essa sta la bandiera che i nostri amici grottaioli hanno appeso l’anno seguente. Essi sono festeggiatissimi mentre la più viva soddisfazione si legge su tutti i volti. E’ la prima volta infatti, che l’androne terminale è raggiunto da un così numeroso gruppo di persone ed i presenti sono consci che la giornata odierna rappresenta uno dei momenti più importanti della fortuna speleologica del Buso della Rana.

 Gastone Trevisiol