In queste ore sul Broad Peack due alpinisti polacchi sono dispersi dopo aver conquistato la cima, ma perchè un 8000 in inverno, perchè rischiare così?????? Ho trovato una riflessione di Simone Moro che tenta di spiegare perchè con parole e riflessioni che condivido in pieno e che da sempre hanno accompagnato il mio andare in grotta o a esplorare montagne.
Nasce sempre da dentro questa forza che ci trascina lontano verso mondi inesplorati……….
buona lettura
Claudio

RIFLESSIONE SULL’ALPINISMO INVERNALE di Simone Moro

“E’ purtroppo una tragedia alpinistica a riproporre questa riflessione, a spingermi nel tentativo di capire e di spiegare cosa sia in realtà l’alpinismo invernale sulle cime più alte del pianeta. Siamo abituati a discernere e valutare i modi di salire una montagna o una parete secondo gli stili, i tempi, le metodiche e le squadre che realizzano un’ascensione. Riduciamo dunque tutto ad una questione che definisce meriti e valori di una scalata, accettando inconsciamente che sia diventato più un esercizio fisico e tecnico che un’attività ancora fortemente slegata dal puro fenomeno sportivo. Come una grande regata oceanica piuttosto che una massacrante competizione nei deserti o nelle foreste, si tende a considerare anche l’alpinismo un evento, spogliandolo dei concetti di esplorazione e avventura nell’eccezione piena ed unica della parola.

Le lotte con gli elementi, con la montagna ed i racconti mitologici di ardimentose scalate alpinistiche, sono giustamente fardelli inutili e poco autentici che si è tolto all’alpinismo e alla sua letteratura, ma abbiamo commesso l’errore di catapultare tutto sulla sponda dell’ovvio, del controllato e controllabile, della scelta solo razionale e strategica dell’azione. Sembra insomma che tutto sia una questione di tattica, di comunicati stampa, di sponsor e di numeri e chi è più bravo in queste quattro cose, la sta solo raccontando meglio degli altri… Abbiamo insomma ingabbiato in una mentalità aziendale la valenza e gli aspetti alpinisti, e in una considerazione domestica, o peggio da bar, il modo di essere spettatori di azione e cronaca alpinistica.

Sono ore in cui assistiamo impotenti alla tragedia sul Broad Peak. Due alpinisti ritornati salvi al campo base con la prima salita invernale della storia di quella montagna, e altri due che questa salita non la potranno raccontare, spariti a 7900 metri dopo un bivacco drammatico a temperature inumane. C’erano alpinisti giovani e meno giovani in quel team, generazioni e scuole diverse, ma che hanno mostrato comunque quanto non sia cambiato proprio nulla nelle difficoltà, e purtroppo anche nel dramma, tra fare una salita invernale oggi e negli anni ‘80, indipendentemente da stili e materiali.

Scalare una montagna di 8000 metri d’inverno fa parte ancora delle inspiegabili pulsioni dell’uomo all’azione, che lo spingono liberamente a spogliarsi di tutto, anche delle sicurezze primarie e del tempo, per realizzare un sogno che lo rende dannatamente vivo, entusiasta, pieno protagonista della sua esistenza. L’alpinismo invernale sulle cime più alte del pianeta rimane sempre e solo una libera scelta, molto più sconveniente di quanto non si pensi, dove si è soli anche se si è in dieci, dove si è lontani da tutti anche se si hanno tutti i telefoni satellitari del mondo, dove si è indifesi anche con tutta la tecnologia ed i materiali più sofisticati. Nessuno può fare nulla, proprio nulla d’inverno e il bel tempo si concede 2 o 3 volte nell’arco dell’intera stagione. Pochi giorni in tre mesi, in cui ci si ritrova prigionieri, per scelta, dei propri sogni. Si è come in un mare in tempesta, con onde alte 30 metri, nel mezzo dell’oceano. Nessuno può fare niente per te e solo tu puoi gestire il peso e le dinamiche della tua scelta, quella che in quel posto ti ci ha portato. Ogni decisione che prendi ricade su di te, solo su di te.

E’ passato più di un terzo di secolo da quando avvenne la prima salita invernale, allora con ossigeno, dell’Everest il primo ottomila salito nella stagione più fredda. Da allora l’esplorazione sulle quattordici vette, per compiere la prima invernale di ognuna di esse, è ancora aperta. Negli anni ’50 l’avrebbero chiamato periodo di conquista, ora chiamiamolo come vogliamo, ma di esplorazione ancora si tratta. Esplorazione in una forma assoluta, che porta in maniera impressionante la firma dell’alpinismo polacco, cresciuto sui Tatra, montagne che raggiungono al massimo i 2600 metri! Io ho solo avuto l’onore, la capacità e la fortuna di aggiungere una striscia di verde a quella loro bandiera, su tre delle 12 prime invernali e di essermi salvato sia in quelle che in altre spedizioni invernali.

L’uomo vuol essere laddove il pensiero lo spinge. Sulla luna, su Marte, su Venere, negli oceani, nelle grotte, negli abissi, nei deserti e sulle cime. Ebbene è questo l’alpinismo invernale. Voler essere e andare dove l’uomo non è ancora riuscito, ed è per questo che anche il Nanga Parbat ed anche il K2 verranno tentati ed un giorno saliti d’inverno. Questa pulsione non si muove su dinamiche di convenienza, di utilità o livello di pericolo. Nessuno vuole o pensa di cambiare il mondo scalando d’inverno, esattamente come non lo pensava chi poi, in realtà, il mondo lo ha cambiato veramente.”

Simone Moro